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Un portafoglio di fondi è davvero attivo e uno di ETF è davvero passivo?

Sovente si leggono in rete giudizi assolutisti sui fondi comuni a gestione attiva o sugli ETF.

Tutto giusto o tutto sbagliato. Ma è davvero così?

 

Partendo da queste osservazioni nasce la domanda di cui al titolo di questo post e vorrei condividere le mie considerazioni.

Non una disamina su tutte le caratteristiche delle due tipologie di OICR, ma solo uno spunto di ragionamento su alcune loro differenze e sui possibili utilizzi.

 

FONDI COMUNI (gestione attiva)

Utilizzando questi prodotti l’investitore si affida alle capacità di un gestore per svolgere tutte quelle attività che altrimenti gli sarebbero precluse al fine di ottenere un risultato di maggiore soddisfazione rispetto al settore sul quale intende investire. Analisi del mercato, dei titoli, scelta dei momenti in cui operare o di qualsiasi parametro possa orientare a scelte ottimali. Ho scritto risultato e non guadagno in quanto questo potrebbe non essere necessariamente l’obbiettivo principale. Un risultato di maggiore soddisfazione, ad esempio, potrebbe essere la riduzione della volatilità di quella classe di investimento oppure uno stile di gestione che sia più consono a determinate condizioni del ciclo economico.

Con i fondi attivi, semplificando, il gestore opera selezioni di titoli che sono molto complesse e potenzialmente più rischiose rispetto all’intero paniere dei titoli presenti su quel mercato. Se per ipotesi il mercato di investimento è quello dell’indice S&P500 della borsa americana potrebbero essere selezionati cento titoli sui cinquecento che compongono l’indice (i numeri sono chiaramente solo esemplificativi). È ovvio e banale che acquistare solo il 20% di tutti i titoli potenzialmente disponibili, aumenterà il rischio di quel paniere se la scelta si dimostrasse sbagliata.

Se il lavoro di selezione sarà stato proficuo, il risultato atteso sarà migliore perché il gestore attivo avrà generato un premio rispetto al mercato intero lavorando per esempio sulle inefficienze del mercato stesso o sulle informazioni ad esso legate.

Ne consegue anche che egli sarà premiato grazie a un costo di gestione mediamente elevato sostenuto dagli investitori per remunerare il suo lavoro. Almeno formalmente.

Ma quali sono i problemi su questo fronte?

L’ESMA (l’equivalente europeo della nostra CONSOB) ha iniziato nel 2016un’inchiesta (Vedi) sui gestori di fondi comuni in Europa perché da studi svolti ha rilevato che molti – troppi – gestori che si dichiarano attivi non lo sono affatto.

Quindi l’investitore paga un costo spropositato che non gli viene retrocesso in termini qualitativi.

Egli non riceve extra premio e non riceve persistenza cioè costanza di risultati.

Perché? Sostanzialmente perché fare una buona gestione attiva è difficile, costa in termini di denaro, in termini di struttura, in termini di rischio, in termini di immagine se si sbaglia pesantemente rispetto al mercato.

Sempre a proposito di costi, molti non sanno che, in particolare in Italia, il costo di gestione di un fondo comune attivo remunera solo in minima parte il gestore. Questo perché circa il 70% dei costi di gestione dei fondi comuni attivi (Fonte Il Sole 24 ore) viene retrocesso agli intermediari per pagare le reti di distribuzione.

Proviamo quindi a giocare con i numeri non considerando in questa fase per pietà le commissioni di performance. Costo di gestione 2% – 1,4% (il 70% del 2% che viene retrocesso al distributore) = 0,6%. Questo è quanto realmente remunera il gestore del fondo attivo. Di conseguenza un investitore che ha allocato 100.000 euro in un fondo comune a gestione attiva su di un mercato azionario, paga in realtà 600 euro al gestore e la bellezza di 1.400 euro alla rete che glielo ha venduto. Ma torneremo su questo tema più avanti.

L’aspetto fondamentale è comunque che un fondo a gestione attiva è sicuramente molto interessante quando restituisce al sottoscrittore: 1) un risultato realmente superiore al mercato di riferimento al netto dei costi (alti o bassi che siano) da questi sostenuti 2) un profilo di rischio che non sia troppo elevato rispetto al mercato di riferimento 3) sia generata, possibilmente, persistenza di risultati.

In un mondo perfetto e semplificando davvero molto, dovrebbe “salire” di più con mercati positivi e “scendere” di meno con mercati negativi, in modo costante nel tempo; cioè “fare meglio”. Ma questo non è un mondo perfetto e quindi raramente i risultati sono questi.

Infine, con questa tipologia di prodotto, è il gestore che sceglie su quali classi di attivi, o su quali titoli, posizionarsi e allocare il portafoglio del fondo. Questo è il motivo della definizione di gestione attiva.

ETF (gestione passiva)

In questi prodotti l’investitore si affida a un prodotto che ha l’obbiettivo esattamente opposto a quello dei fondi a gestione attiva: semplicemente replicare nel modo più fedele possibile l’indice del mercato sottostante. Quindi non c’è alcuna selezione di titoli rispetto al parametro di riferimento. Rispetto all’esempio precedente investendo sullo S&P500, l’ETF dovrà restituire esattamente il risultato dei 500 maggiori titoli per capitalizzazione della borsa americana. Quindi attenzione: sale ma anche scende esattamente quanto il mercato. Ci sono però alcune considerazioni da approfondire. Innanzitutto, non essendoci attività di selezione rispetto al benchmark, non c’è possibilità di sbagliare valutazioni quali la scelta dei titoli, il timing di entrata o uscita ecc.

Inoltre siccome non c’è un gestore (che compia scelte attive sul portafoglio) crolla drasticamente il costo di gestione che per quei prodotti che ad esempio investono sul mercato azionario, è circa dello 0,6%. Vi ricorda qualcosa questa percentuale? Sostanzialmente l’identica remunerazione netta che viene riconosciuta anche al gestore del fondo attivo. Ma allora se l’ESMA cioè la massima autorità di protezione degli investitori europei, scrive che troppi fondi a gestione attiva non lo sono realmente, perché pagare il 2% quando a parità di mercato scelto si può ottenere lo stesso risultato (quando addirittura non inferiore al benchmark e di conseguenza superiore per l’investitore) pagando solamente lo 0,6% e senza oltretutto la pesante gabella dei costi di performance o peggio di acquisto, con prodotti peraltro infinitamente più semplici e rapidi da acquistare o vendere presso qualsiasi intermediario?

Negli ultimi anni la domanda e quindi l’offerta degli ETF stanno letteralmente esplodendo anche per un altro motivo: gli alti costi di gestione dei fondi attivi sono diventati insostenibili in molti settori e in particolare sul reddito fisso e i risparmiatori stanno imparando a capire questo problema.

L’incredibile crescita dell’offerta e le sue conseguenze per l’investitore finale.

Ma l’offerta in continua crescita ha anche un altro importantissimo risvolto positivo. Oggi è possibile disporre di prodotti per investire in nicchie di mercato o settori (Vedi) che altrimenti sarebbero del tutto irraggiungibili per l’investitore finale. Per esempio, volendo investire in titoli governativi europei si può prendere posizione su tutte le possibili durate di vita residua, dal brevissimo fino al lunghissimo termine come anche disporre di un unico prodotto che copra tutte le scadenze.

Il tutto con valori quota ben inferiori ai 1.000 euro necessari per l’acquisto diretto di un BTP e senza neanche il problema e i costi del reinvestimento delle cedole.

Sui mercati del reddito variabile la scelta è altrettanto vasta e a mero titolo di esempio, è possibile investire nel ciclo dell’acqua, nelle energie rinnovabili, ma addirittura nelle cosiddette tecnologie disruptive oppure ancora direttamente nell’oro, nel ciclo delle batterie, ecc.

Inoltre, bisogna ricordare che il prodotto è passivo rispetto al benchmark scelto, ma anche che questo può essere creato su di una serie di parametri che possono variare nel tempo avendo la possibilità di ottenere una sorta di ibrido tra le due strategie.

Non solo quindi i grandi e noti benchmark (S&P500, MSCI World, Dax ecc.) ma anche panieri specifici creati “ad hoc” dal singolo emittente. Ciò ovviamente non significa dover investire in mille nicchie di mercato, ma piuttosto che avere la possibilità di scegliere di operare dove ragionevolmente ci siano spazi interessanti per farlo, diventa fondamentale per allocare i propri attivi. La massima scelta diventa un valore discriminante indipendentemente da come e quanto verrà poi sfruttata.

Infine, sempre in tema di costi, alcune precisazioni: il costo di gestione degli ETF molto raramente supera lo 0,7%, NON remunera le reti bancarie e NON sono applicati costi di performance (che incidono pesantemente sui risultati dei fondi attivi) perché semplicemente la performance contro il mercato non viene ricercata. Ecco perché non ve li propongono mai o, al massimo, in quantità risibili.

Torniamo a questo punto alle due domande nel titolo del post.

 

Un portafoglio di fondi attivi è realmente attivo?

Teoricamente sì ma non è assolutamente garantito che sia così, anzi. Nonostante i numeri sovente vantati, attuando un’analisi più approfondita e soprattutto verso benchmark corretti, i risultati sono in moltissimi casi sensibilmente inferiori ai parametri o, al meglio, speculari agli stessi.

Una gestione in fondi attivi è invece probabilmente (più) passiva (o meno impegnativa) per chi li colloca in quanto la maggior parte del lavoro (e delle responsabilità) viene delegata ai gestori dei fondi.

Un portafoglio di ETF è realmente passivo?

Quasi mai lo è. Se infatti è vero che i prodotti sottostanti sono totalmente indicizzati, la loro selezione e il loro monitoraggio comportano scelte tutt’altro che statiche. Si realizza anzi una gestione attiva attraverso la scelta di strumenti passivi. Questa diventa ovviamente più impegnativa, sia in termini di lavoro che di responsabilità da parte del professionista, ma tendenzialmente in grado di essere meglio apprezzata dal cliente finale. Inoltre, i portafogli non potranno che essere estremamente personalizzati in quanto pensati e monitorati per il profilo di rischio e le esigenze da soddisfare per ogni singolo assistito.

Ma quale potrebbe essere allora la soluzione ottimale?

Ovviamente e fortunatamente non esiste la soluzione perfetta. Tuttavia, a titolo personale, non ho dubbi a utilizzare innanzitutto quei fondi comuni, realmente attivi, che siano in grado di generare un extra risultato rispetto al mercato, ai costi pagati dai sottoscrittori e possibilmente con buona persistenza di risultati.

In tutti gli altri casi sicuramente preferisco rivolgere la mia attenzione agli ETF anche se richiedono un diverso impegno nella loro selezione e monitoraggio nel massimo rispetto del profilo di rischio dell’investitore. L’unione delle due diverse tipologie di prodotto permette di avvicinarsi tendenzialmente alla soluzione ottimale nell’utilizzo degli OICR.

 

Roberto Dolza

 

Foto di Iván Tamás da Pixabay

 

 

I soldi sul conto corrente sono nostri? Non proprio.

C’è un tema che probabilmente molti non conoscono, inerente i soldi depositati sul proprio conto corrente.

Che invece dovrebbe essere ben chiaro a chiunque.

 

Cominciamo dal Bail In

Proviamo ad affrontare il tema di questo post partendo da qualche anno fa, dall’entrata in vigore della famosa legge sul Bail In, la quale prevede che in caso di fallimento della propria banca, i correntisti privati possano essere chiamati a sanare il dissesto dell’istituto con la loro disponibilità liquida per la componente superiore ai 100.000 euro per ogni titolare del conto corrente.

Una domanda semplice, ma importantissima

In quei giorni, fu scritto molto su questo tema (spesso a sproposito), ma non ricordo di aver letto una semplice domanda:

Perché un correntista che ha semplicemente versato della liquidità sul conto corrente di cui è titolare dovrebbe rimediare con questa ai problemi della banca?

Eppure, si tratta di una domanda fondamentale da porsi prima – molto prima – del manifestarsi dell’eventuale problema.

La situazione appare ancora più paradossale se pensiamo che il semplice correntista non investitore: A) Non ha acquistato un’obbligazione emessa dalla banca e quindi non ne è creditore, B) Non ha acquistato azioni e quindi non ne è proprietario.

Il Codice Civile, ci viene in aiuto

La risposta ce la fornisce l’articolo n. 1834 comma 1 del Codice Civile che recita: “Nei depositi di una somma di denaro presso una banca, questa ne acquista la proprietà ed è obbligata a restituirla nella stessa specie monetaria alla scadenza del termine convenuto, ovvero a richiesta del depositante, con l’osservanza del periodo di preavviso stabilito dalle parti o dagli usi.”

Ergo i soldi depositati sul conto corrente… NON sono più i nostri soldi quindi possono essere aggrediti dai creditori della banca e l’obbligo di restituzione da parte dell’istituto di credito può non essere più onorato.

Cosa fare allora per proteggersi?

Immaginiamo per esempio che due clienti cointestatari (marito e moglie o due soci) abbiano depositato 1.000.000 di euro in attesa di farne uno specifico uso. In questo caso sono tutelati dal fondo di garanzia interbancario fino a 100.000 cadauno. L’esigenza da soddisfare in questo esempio è di poter disporre rapidamente della liquidità e agire per evitare di sottoporla a rischi investendola in diverse classi di attivi.

Come fare per tutelare gli altri 800.000 euro? Aprire altri quattro conti correnti presso altri istituti di credito? Sarebbe ovviamente oneroso, fastidioso, decisamente poco pratico da gestire.

La soluzione esiste

Eppure, la soluzione ed è di una banalità disarmante. È sufficiente acquistare per l’importo non protetto un etf di liquidità. Tecnicamente i soldi vengono prelevati dal conto corrente – e quindi non sono più aggredibili – e trasferiti sul conto titoli sotto forma di un OICR con tutte le importanti tutele previste dalla normativa per questi prodotti. Attenzione però: NON bisogna incorrere nell’errore di acquistare un titolo di Stato o peggio un’obbligazione emessa da un’azienda privata anche se con vita residua breve, primo per un possibile problema di solvibilità – mai dire mai – e secondo perché a scadenza i soldi tornerebbero immediatamente sul conto corrente!

Semplicissimo, con un costo ridicolo, trasferibile da una banca all’altra in caso di dissesto. Classe di attivi? Di fatto assimilabile alla liquidità sul conto corrente. Liquidabilità? Massima, si vende a mercati aperti e tre giorni lavorativi dopo si dispone della liquidità sul conto (in caso di problemi su quello della nuova banca però!). Rendimento? Di questi tempi zero. Rischio? Se il rischio zero non esiste e quindi è un’utopia, esso sarà comunque molto vicino a questo valore.

Sicuramente infinitamente più basso di quello che si sarebbe corso lasciando i soldi sul conto corrente.

Meglio saperlo prima di acquistare fondi comuni o polizze assicurative “sicuri”.

 

Foto di Stux da Pixabay